Sapevi che discutere al lavoro può costare il posto? Basta una di queste parole e torni a casa

Ti è mai capitato di avere discussioni al lavoro? Se capita attento alle parole che usi, perché ne basta una a mandarti a casa.

Ogni posto di lavoro è spesso una realtà a sé stante per funzionamento e rapporti che si instaurano fra i colleghi oltre che fra dipendenti e superiori. A volte non c’è grande contatto umano e la comunicazione è fredda, altre si creano anche relazioni di rispetto se non di amicizia. Purtroppo però problemi, errori e imprevisti capitano, e può essere che l’emotività prenda il sopravvento.

Discussione fra impiegati seduti a un tavolo
Sapevi che discutere al lavoro può costare il posto? Basta una di queste parole e torni a casa. – (onemag.it)

Durante una riunione, un rimprovero o un semplice confronto la discussione può farsi più accesa. Ma se tra le mura domestiche i filtri possono saltare quando si è in un contesto professionale non è così. Non importa quale sia il rapporto di confidenza che si instaura, perché prima che amici o parenti si è colleghi o dipendenti. Capita, ma per legge si rischia più di quanto si immagini.

Rischiare il posto per ciò che si è detto durante una discussione non è più una minaccia vuota, ma concreta e sostenuta dalla legge. Questo significa che anche il superiore o il collega più tollerante ha la facoltà di rivalersi nel momento in cui i toni si alzano troppo. Il problema è capire quale sia davvero la linea di confine.

Quali parole possono costarti il posto di lavoro

A stabilire chiaramente i limiti entro cui discutere ci ha pensato la recente ordinanza della Cassazione n. 21103. Il documento riguarda un caso diventato emblematico dove una dipendente, dopo aver scoperto una modifica del piano ferie, aveva avuto un diverbio acceso con un superiore. Durante lo scambio era arrivata a definirlo un “lecchino” in presenza dei colleghi.

Donna che esce da un ufficio con aria abbattuta
Quali parole possono costarti il posto di lavoro. – (onemag.it)

La risposta alla provocazione era stato un provvedimento disciplinare molto duro, ovvero il licenziamento in tronco. La donna aveva provato a impugnarlo e in primo grado di giudizio sembrava che potesse ottenere il pagamento di dodici mesi di indennità

In appello però il giudice aveva concluso che l’insulto pronunciato era non solo un’ingiuria ma un prova di insubordinazione sufficiente a rendere legittimo il licenziamento. Analizzando i fatti più a fondo pare anche non ci fossero state provocazioni da parte del superiore tali da giustificare una simile risposta.

In sintesi la realtà è che un solo insulto basta e avanza per perdere il posto di lavoro, soprattutto se rivolto a chi è superiore nella gerarchia aziendale. Se poi come nel caso della dipendente in questione si tratta di una recidiva c’è ben poco da fare.

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